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Le docce della piscina

Le docce della piscina

Se Dante potesse entrare nelle docce di una piscina, affollate di bambini tra i tre e i dieci anni, ne potrebbe trarre ispirazione per un nuovo girone infernale.

Il sommo poeta dovrebbe anzitutto sostituire l’alloro che porta sul capo con foglie di mangrovia o altra pianta adatta a un clima caldo umido. L’autore della commedia dovrebbe, inoltre, momentaneamente rinunciare a Virgilio, incautamente travolto dai genitori nel tentativo di accaparrare una doccia per i propri pargoli. Se, ad esempio, visitasse il luogo che io frequento abitualmente, si troverebbe catapultato in una selva di mamme, unite da un unico obiettivo: far lavare i propri figli, appena usciti dall’acqua clorata e non dal fango corrosivo, prima degli altri. Intorno, sentirebbe aleggiare un mix di profumi, dalla violetta al cocco, dal pino silvestre all’amarena, fusi in un unicum non necessariamente piacevole. Ma soprattutto si troverebbe dinnanzi a una Babele di voci.

In eleganti tailleur o in tenute casual, munite di ciabattine glitterate o con tacchi avvolti in copriscarpe di plastica, le mamme si catapultano nella zona docce non appena l’istruttore accenna a congedare i bambini. Le più interventiste, sprezzanti del pericolo, li lanciano sotto il getto d’acqua, occupato o meno; altre rimproverano la prole di non essere stata abbastanza lesta nella caccia al post; altre ancora invitano i bambini a usare una doccia in due aggiungendo al rischio di bagnarsi quello di venire fulminate dalle altre. Il tutto in mezzo a uno stridore di voci incitanti. Le mamme, infatti incitano: a usare lo shampoo, la spazzola e il balsamo; a districare i capelli, a fare “per bene” e “in fretta”. In tutto ciò, bambini e bambine, continuano a sostare sotto le docce, incuranti delle richieste materne, per un tempo che pare infinito alle genitrici dei piccoli nuotatori in attesa di un soffione sotto cui collocarsi.

Quando, dopo averle faticosamente guadagnate, le madri riescono a far sì che i pargoli abbandonino le docce, si premurano di avvolgerli negli accappatoi. Ciò richiede movimenti rapidi ma non sempre armoniosi: in un solo gesto occorre identificare il proprio accappatoio tra i tanti uguali, afferrarlo, farlo indossare al proprio figlio e impedire allo stesso di ritornare sotto la doccia. Ovviamente, il tutto coinvolge tutti i presenti che devono prontamente evitare manate, bracciate e accappatoiate accidentali.

Il nostro assisterebbe a tali scene in un ambiente caratterizzato da una temperatura soffocante e da litri di schiuma sversati sul pavimento. Il poeta condividerebbe con i presenti l’obiettivo di non essere vittima di un gavettone e di non scivolare. Inoltre difficilmente in codesto loco potrebbe valere il “non ti curar di loro ma guarda e passa”. Il poeta, infatti, si troverebbe, sia pur inconsapevolmente, rapito da considerazioni vagamente socio-antropologiche riconducibili a “perché queste persone si infliggono tal pena volontariamente?”. La meditazione però gli impedirebbe di notare come mamme e pargoli raggiungono il girone successivo: quello degli spogliatoi con le borse sulle panche. 

Nel malcapitato caso che le docce della piscina costituissero davvero un girone infernale e che fossero popolate da chi le frequenta in vita, non avrei scampo: appartengo a tutte le categorie materne sopracitate.

 

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