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Preadolescenti che buttano la spazzatura

Preadolescenti che buttano la spazzatura

Il sacchetto dell’umido è pieno. Buccie di frutta, scarti di cibo, la terra secca di qualche vaso abbandonato sul balcone affollano la busta biodegradabile, mentre la primavera esplode. Guardo il sacchetto poi mi affretto a coprire il bidoncino con il suo coperchio. Ho ingaggiato una battaglia con due piccioni che, da qualche giorno, tentano di conquistare la nostra spazzatura. Se ne stanno appollaiati sulla ringhiera in attesa di tuffarsi nelle nostre pattumiera. Gli chiedo per l’ennesima volta di andare via (sì, parlo con i piccioni). I due svolazzano pigramente verso il palazzo di fronte ma continuano a fissare il nostro cestino. Anche il selvaggio si è rotto di fare la guardia alla spazzatura.

Decisa a non darla vinta ai piccioni, lego il sacchetto e, quasi senza pensare, chiamo la preadolescente. “Vai a buttare la spazzatura?” chiedo. “Subito” risponde. E corre ad allacciarsi le scarpe. Mi fermo.

Fino a qualche settimana fa alla stessa richiesta avrebbe borbottato. Tra uno sbuffo e l’altro avrebbe pronunciato una o più di queste frasi: “l’ho buttata anche l’altro giorno”, “chiedilo a Lavi”, “perchè io?”, “non mi va”, “tra un attimo” (tra due o tre ore, se non mi scordo. ndr), “uffa” ( anche in versioni lievemente più colorite).

Ironizzo sul fatto che, in assenza di questa situazione d’emergenza, non avrebbe accettato così facilmente di andare a buttare la spazzatura. Rido, ma da sola e a denti stretti.

La guardo avviarsi per le scale e penso a quanto possa mancarle la sua quotidianità. Tra tutti e tre, probabilmente, è quella che ha ristrutturato meglio la sua routine. Al mattino si chiude in soggiorno per le lezioni online. Nel pomeriggio ha i compiti da fare e i libri in cui rifugiarsi. Una volta a settimana c’è l’appuntamento con il gruppo di lettura della biblioteca comunale.

Ogni tanto, sgattaiola fuori di casa e, armata di auricolari e cellulare, si siede in un angolo del cortile. Ha scoperto il telefono, le chiacchiere con le amiche, il tempo speso a parlare di niente. O di tutto. Quando torna sorride.

Altre volte sta in camera per ore. Disegna. Inventa mondi. Se il selvaggio fa irruzione può succedere di tutto. Può arrabbiarsi come si arrabbiano gli adolescenti. Oppure inventa un gioco, come i bambini. Il passaggio da uno stato all’altro può essere repentino. Fa così con tutti, con me soprattutto. E tutta la teoria letta sui libri finisce per essere meno utile di quanto avessi osato sperare.

Capita che si piazzi davanti a me. Inaspettata. Borbotta. Mi abbraccia. Racconta qualcosa. Chiede se ci sarà il campo estivo. Della scuola, invece, non chiede. Probabilmente ha già digerito il fatto che non riaprirà. Oppure preferisce non pensarci. Si arrabbia per niente. Alza la voce. Mugugna. Sorride.

Chissà se pensa a quello che questa epidemia le sta rubando. Mi chiedo se si senta più protetta o scippata. Era appena inziata la stagione delle uscite con le amiche, da casa a Piazza Maggiore, il sabato pomeriggio. Eppoi le riunioni di reparto e quelle di squadriglia. Finivano che era già buio. L’aspettavamo un po’ distanti. Si vergognava un po’ che l’andassimo a prendere. Noi, invece, ci spaventavamo di farla tornare da sola a quell’ora. Avevamo trovato un compromesso. Come tanti. Come i tanti che abbiamo trovato in questi giorni.

Chissà cosa racconterà tra 20 anni. Mi chiedo se guardando indietro penserà di aver vissuto un pezzo di storia o di averlo subito. Chissà se ai suoi figli, quando sbufferanno per andare a buttare la spazzatura, racconterà di quella primavera in cui “buttare il rusco” era l’unico modo che una preadolescente aveva per uscire di casa.

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