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Coronavirus, scuola e dintorni

Coronavirus, scuola e dintorni

Ormai è chiaro: le scuole non riapriranno. Mentre altri paesi hanno riaperto o si apprestano a farlo, l’Italia sembra intenzionata a far finire l’anno scolastico senza che gli studenti rimettano piede in classe. Giusto? Sbagliato? Non lo so. Onestamente, non lo so. E più cerco di informarmi, più sento il bisogno di avere a disposizione maggiori informazioni.

Fatto sta che, a casa mia, sembro essere stata l’ultima ad aver capito che a scuola non si torna. Le fanciulle hanno smesso di fare ipotesi e il selvaggio di fare domande. E, lo confesso, temo quella domanda a cui non potrò, probabilmente, rispondere con un sincero “non lo so”.

Il tema è gigantesco. Più di una voce si è alzata per far notare che “non si può pensare a una ri-apertura di fabbriche e aziende senza una riapertura delle scuole.” Tradotto: non si può andare a lavorare e lasciare i figli soli a casa. Lasciarli con i nonni appare imprudente. Lasciarli soli, oltre ad andare molto vicino all’abbandono di minore, significa “mollarli” davanti alla didattica a distanza. E, per quanta autonomia abbiano raggiunto in queste settimane, mi pare un po’azzardato. A questo si sta tentanto di far fronte con bonus baby sitter e ampliamento dei congedi parentali. Basterà? Non ne ho idea.

La questione non è meramente logistica. Dietro ogni decisione che incide sulle famiglie ci sono (o almeno, io cerco di vederle) le idee che abbiamo della famiglia stessa, della società nel suo insieme. E in questo caso della scuola.

Ecco la scuola. La didattica a distanza è stata una risposta di emergenza, più o meno efficace a seconda di una marea di variabii, a una situazione eccezionale. Per quel che ho potuto vedere, è stata usata per tenere insieme “i programmi” e la “relazione”. Insomma, se non fosse stata possibile sarebbe stato tutto più complicato e difficile. Eppure, anche solo osservando i miei figli, mi sento di dire che non ha sostituito la scuola.

E se allargo lo sguardo, vedo bambini e bambine per cui questa scuola-senza scuola rischia di rivelarsi pericolosa. I bambini in condizione di disagio sociale, quelli per cui la scuola, magari non arrivata a casa per gli annessi e connessi del digital divide, è la sola fonte di un diverso mondo possibile. E i bambini con disabilità, più o meno gravi, che insieme alla scuola hanno visto sparire lo sport, le attività associative e magari ridursi alcune terapie e il sostegno educativo. Bambini per cui la scuola e le attività extra scolastiche, sono, probabilmente più che per altri, strade verso quel massimo di autonomia possibile che le famiglie auspicano. Un’autonomia possibile che però non riguarda solo le loro famiglie, ma tutti noi. Perchè in essa c’è un pezzo della nostra civiltà, quello che si cela dietro il concetto di inclusione e ancor di più di rispetto di ogni essere umano.

In estrema sintesi, mi preoccupa questa rinuncia alla ri-apertura. Non sto negando l’esistenza dei rischi connessi al ritorno in classe. Mi sto chiedendo se, quale e quanta volontà politica ci sia di trovare alternative.

Cosa è stata la scuola per ciascuno di noi? Se guardo indietro, vedo, tra le alte cose, un luogo di apprendimento,di incontri e scontri importanti. E a livello collettivo cos’è la scuola? Un parcheggio? Un luogo di socializzazione e trasmissione della cultura (in tutte le sue accezioni)? Un laboratorio di cittadinanza? Un luogo di costruzione di saperi immediatamente spendibili sul mercato? Un luogo di co-cocostruzione del sapere? Un contesto di costruzione di competenze (nel senso di sapere, saper essere, saper fare, saper comunicare?) E ancora: riduce o riproduce le diseguaglianze sociali e socio-economiche?

Forse è ed è stata un po’ di tutto questo. Sta alla politica indirizzare verso una o più dimensioni prevalenti. E io ho l’amara sensazione che oggi un’idea di cosa sia, debba e possa essere la scuola non ci sia. A livello “alto”, almeno.

Esiste, invece, tra chi la scuola la vive. Ed è tra insegnanti, educatori, genitori che sono nate idee e proposte. Forse perchè, oltre ad aver chiaro che le decisioni sulla scuola incidono sull’intera società, hanno ancora la volontà “politica” di rendere effettivo quel diritto allo studio, costituzionalmente sancito, che tra salti in avanti e ritorni al passato, rischia di rimanere formale.

Tra tutte le ipotesi, più o meno realistiche, circolate in questi giorni mi ha colpito parecchio quella della didattica all’aperto”. Nel nostro paese nel secolo scorso non sono mancate esperienze di “scuola all’aperto”. Molte sono citate nei manuali di pedagogia, storia dell’educazione, didattica.

Certo, dietro ad una foto, di bambini intenti a seguire una lezione, con o senza banco portatile al seguito, c’è un prima e un dopo. Ci sono incontri, abbracci, liti, corse, segreti sussurrati. Insomma, l’ipotesi dei piccoli gruppi favorirebbe, ma non garantirebbe, il distanziamento sociale. Ma è davvero indispensabile questo distanziamento tra i bambini? E se, sì, da che età si può chiedere a un bambino di rispettarlo? Quale dovrebbe essere la misura del piccolo gruppo per garantire la sicurezza?

Ecco, di tutte queste cose ( e di molte altre) vorrei (e probabilmente siamo in tanti a volerlo) si occupasse non solo un esperto di infanzia e adolescenza, ma un gruppo di lavoro ampio e pluri-disciplinare, come chiesto da più parti.

E il ragionamento non potrà non coinvolgere lo 0-6, il mondo dei nidi e delle scuole d’infanzie. Il vasto universo dei servizi educativi, in cui il contatto fisico è parte del lavoro di cura. Nidi e scuole d’infanzia, hanno (anche se a volte appare politicamente scorretto dirlo) una doppia natura: sono servizi educativi ma sono anche servizi di custodia. Si, sto dicendo che nidi e scuole d’infanzia hanno permesso ai genitori di conciliare vita familiare e lavorativa. Anzi, sto dicendo che, nella maggior parte dei casi, hanno consentito alle madri di lavorare. E poco importa se quel lavoro sia necessario per arrivare a fine mese o permetta di non buttare via anni di studio. Perchè, inutile nascondersi, dietro il lavoro c’è una dimensione identitaria.

Dietro ogni storia, quella di chi lascia il lavoro dopo il primo figlio e quella di chi con sette continua a lavorare a tempo pieno, ci sono successi e insuccessi, delusioni, ripensamenti, aggiustamenti, compromessi. Non lasciamo che il virus faccia il gioco di qualche senatore ultra-conservatore!

Facciamo in modo, che anche nella fase 2, non si perda di vista la doppia dimensione di nidi e scuole d’infanzia: garantire la conciliazione tra famiglia e lavoro in luoghi educativi a misura di bambino. Come nel disegno di chi ha messo in campo volontà e creatività per superare l’OMNI.

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