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Cfa (mamma va al campo)

Cfa (mamma va al campo)

Cfa sta per Campo di formazione associativa, una delle duemila sigle che rendono lo scoutese Agesci una sorta di lingua parallela, paragonabile, per numero di acronimi, a quella della scuola e della sanità. Ma torniamo a noi.

Questo campo, il cfa appunto, avrei dovuto farlo 17 anni fa, ma mentre compilavo la scheda seppi di essere stata presa a un master. Ci ritentai due anni più tardi. Questa volta la compilazione della scheda fu accompagnata da due linee rosa che, nove mesi più tardi, si trasformarono nella fanciulla numero uno.

Lo scorso ottobre, quando ho ripreso a fare servizio, mi sono chiesta, scherzando, se sarebbe stata la volta buona per “andare al cfa”. E “vado-non vado”, alla fine ci sono andata davvero.

Devo ammettere, però, che l’inizio non è stato dei migliori: un treno perso ha provocato una quasi crisi d’ansia. La quasi crisi d’ansia mi ha costretto ad abbracciare il water e abbracciare il water mi ha costretto a lanciare il fazzolettone in bagno. E scordarlo. Morale della favola: sono arrivata, dopo 17 anni, con 15 minuti di ritardo e senza fazzolettone.

A quel punto, insieme alla salita, è iniziata la discesa. “Stamattina me ne sono successe di ogni” ho borbottato a mezza voce, in un italiano sbilenco, mentre appoggiavo lo zaino. “Tranquilla, non succederà più” mi ha sussurrato qualcuno, mettendomi un braccio sulle spalle. E così è stato.

Ho vissuto una settimana intensa di strada, incontri, riflessioni, preghiera. Una settimana che ricorderò per quel miscuglio ben riuscito di semplicità e intensità, impegno e leggerezza.

Ho vissuto esperienze che non vivevo da anni: l’hike e la lectio mattutina in primis. Ma l’ho fatto con i 40+ di oggi, tirando un sospiro di sollievo nello scoprire di non essere l’unica tra gli allievi ad essere già entrata negli anta.

Ho incontrato persone che spero di portare nel cuore anche se finirò per scordare qualche nome o l’associazione nome-provenienza.

Ho ascoltato, parlato, riso, pregato, cantato, abbracciato, dormito poco e bevuto un pessimo caffè in ottima compagnia.

Ho assaporato la gioia semplice della condivisione. Mi sono sentita parte di un tutto più grande,quell’associazione, l’Agesci, in cui sono diventata grande e in cui oggi stanno crescendo le mie figlie.

Mi sono lasciata interrogare e ho fatto tesoro delle esperienze altrui, tutte diverse ma in fondo tutte unite da un unico filo: i ragazzi.

E me li sono vista davanti i “miei” ragazzi: quelli di tanti anni fa e quelli di adesso.

Ho riscoperto cose che pensavo di aver dimenticato. Ed è stato un po’ come andare in bicicletta dopo tanto tempo. O meglio, come camminare , come se nulla fosse, sotto la pioggia.

Ho provato a farmi coinvolgere e colpire da ogni proposta. Ho cercato di stare dentro a ciò che stavo vivendo, anche quando un messaggio mi ha avvertita che il selvaggio era stato “dimenticato sullo scuolabus” dalle sorelle e prontamente “salvato” da un’ altra mamma.

Sono tornata a casa carica. Carica di una gioia un po’ naïf ma sincera. E che ancora sto gustando.

Sono partita pensando di imparare delle cose nuove. E le ho imparate anche se sono diverse da quelle che mi aspettavo. Per scoprire il significato di alcune sigle associative avrò ancora bisogno di Google ma mi sento ricca di un’esperienza. Non so dire se quest’esperienza porterà dei frutti ma so di voler ancora “giocare la mia parte”. Senza nostalgie.

Mi sono regalata una settimana per me. Sono stata immersa nella bellezza dei paesaggi e in quella delle persone con cui ho percorso questo piccolo pezzo di strada. Mi è stato donato del tempo e spero di riuscire a donarlo con la stessa semplicità con cui l’ho fatto mio.

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