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19 luglio (il nostro 19 luglio)

19 luglio (il nostro 19 luglio)

Il 19 luglio è il giorno dell’anno in cui, a casa nostra, pubblico e privato più si intrecciano. O meglio, è il giorno in cui, involontariamente, il ricordo pubblico e quello familiare convivono. Pur intrecciandosi solo per pochi minuti.

É sempre stato così, fin da quel 19 luglio, una calda giornata estiva, la più attesa e temuta del 2013. Era il nostro giorno X. Con tre settimane di anticipo rispetto alla data presunta del parto, il piccoletto sarebbe stato invitato ad uscire.

Siamo arrivati in ospedale alle 8.30 spaccate, con una borsa piccola piccola e preparata di fretta, nonostante conoscessimo la data. Io mi portavo dietro quintali di paure, quelle di otto mesi di salita con il tacco 12, nonostante il sentiero fosse in piano e calzassi dei sandali piatti. Quintali di paure, macchiate di speranza. Il maritozzo al contrario, portava con sè, quintali di speranza macchiati di paura. Insomma, paura e speranza in proporzioni variabili. Posizioni differenti su continuum “andrà tutto bene”-“potrebbe andare tutto male”.

L’accettazione, il prelievo. Il profumo di lavanda sui capelli, visto che i pidocchi non sembravano voler abbandonare la loro residenza sulla testolina delle fanciulle. Poi la stanza, in attesa dell’induzione e del tracciato.

Un gioco sul tablet per ingannare il tempo. Ma giocato male, così tanto per fare. Mollato presto, per leggere i giornali online. Tra le pagine il 19 luglio, quello pubblico, collettivo. Il 19 luglio della memoria. Più che i testi ricordo le foto: le macerie in via D’Amelio, Borsellino sorridente accanto a Falcone, gli agenti della scorta, Borsellino in primo piano, il volto limpido di sua sorella Rita accanto a un’intervista letta a metà.

Immagini e parole del 19 luglio 1992, l’anno delle stragi di mafia. Quel pomeriggio, mentre io ero in spiaggia con le amiche o forse decidevamo al telefono cosa metterci per la nostra consueta passeggiata da quattordicenni, a Palermo veniva scritta una pagina scura della storia italiana. Ancora non lo sapevamo che da quella pagina buia sarebbe scaturito un movimento di “memoria operante” destinato a far capire, a chi ancora si ostinava a non crederci, che il nemico esisteva davvero e lo si sarebbe combattuto anche con la cultura.

Quelle immagini mi ripassavano sotto gli occhi, mentre il pennino della macchina per il tracciato scriveva un pezzo della mia storia, della nostra storia. E gli occhi, la testa e il cuore erano sintonizzati su quella piccola, minuscola, immensa storia. La linea delle contrazioni silente, piatta, di cui ancora mi importava poco. Era l’altra linea a interessarmi, quella del battito: regolare con curve da manuale. Come doveva essere. Come avrebbe dovuto continuare a stare. “Può lasciarlo ancora un po’?” chiedevo all’ostetrica quando veniva a staccarlo.

C’era Enza di turno quel giorno, una delle “mie fantastiche quattro, le ostetriche dell’ambulatorio che seguiva le gravidanze. Mi hanno supportato e sopportato per 37 lunghe, interminabili settimane. Dalla mano tesa dietro la scrivania a prendere la mia, il giorno della prima visita. all’attacco di panico della morfologica, e da lì all’ultima visita, quella in cui avrei baciato il medico che ha prescritto “lo sfratto” perchè “signora un margine di rischio c’è sempre ma sappiamo quanto sia importante minimizzarlo”.

Alle 14, quando la linea delle contrazioni era ancora piatta e l’altra continuva ad essere esattamente come doveva essere, è arrivata Silvia, un’altra delle fantastiche quattro. Smontava e ancora in divisia e scesa d’un piano solo e soltanto per noi, per chiederci “come state?”, “come va?”. Un sorriso dolcissimo il suo.

Sono stati tutti incredibilmente gentili quel giorno con noi. Un medico mi ha chiesto “perchè quest’induzione?”, poi ha guardato la cartella e quasi si è scusato per avermi fatto pronunciare quella siglia, mef, che un anno prima ci aveva scaraventato in un baratro da cui sembrava impossibile risalire.

Tracciati, tracciati. Accolti come oracoli di un “andrà tutto bene”. Anche la curva delle contrazioni inizia a incresparsi. Torna Enza con la flebo dell’antibiotico. Nelle ultime analisi c’era un batterio, di cui non ricordo il nome, che bisognava neutralizzare durante il parto. D’altronde, mica potevo farmi mancare una generosa razione d’ansia supplementare.

Le contrazioni si fanno sempre più forti. A mandarmi in sala parto c’è Stefania, la terza delle fantastiche quattro. ” Mi commuovo anch’io” mi dice sottovoce.

L’ostetrica della sala parto si presenta ma non registro il nome. “Mi attacchi il tracciato?” chiedo. Il suono riparte, regolare, meraviglioso. Ci lascia soli con quel battito. “L’anestesistaè in sala parto! Mi spiace ma devi aspettare un po’ “. Non sono certa di volerla l’epidurale. Il medico l’ha prescritta, per rendere tutto più veloce in caso serva un cesario d’urgenza. Non ci sarà il tempo di farla.

Il selvaggio ha voglia di nascere. Costringe l’ostetrica a rimandare il cambio turno. Vedo la testolina sul lettino. Guardo il maritozzo. Guardo l’ostetrica. Lei, dolcissima nel suo grembiule verde usa e getta “non ti preoccura, va tutto bene, un’altra spinta e lo senti piangere”. Un’altra spinta. Il pianto. Un suono sublime. L’urlo della vita. Mancano dieci minuti alle otto.

Pochi istanti dopo siamo io e lui, pelle a pelle. Il cordone ancora attaccato. Poi il bagnetto, con papà. La prima poppata. Intanto, in un angolo, lui fa qualche telefonata: i nonni, gli amici più cari. L’annuncio sul forum per le mamme di CiaoLapo, in attesa, con noi, come noi. Compagne preziose del prima, del durante, del poi.

Non ho parole. La gioia me le ha rubate tutte. Sto in silenzio a contemplare quel fagotto che ho sul petto. Contemplo la vita. Il miracolo. Mi stupisco del mio stupore. La vita che riprende a scorrere è troppo difficile da descrivere. Spiazza. Restituisce il fiato e lascia senza parole. Semplicemente.

Il fagottino passa tra le braccia del papà. Fermo davanti alla finestra mostra un albero a quel cucciolo avvolto in una tutina. Quella a maniche lunghe. Comprata dalla nonna. Io ne avevo solo due, a maniche corte. Prese col fiato sospeso. Come i minuscoli calzini bianchi. Comprati in centro. La sera prima. Insieme al cappellino Bianco come quello di un puffo. Ma un puffo rosso. Di vita.

Il ginecologo di turno si affaccia. É quello che ha fissato “lo sfratto”. Mi riconosce. Scambia uno sguardo con l’ostetrica. “Tutto bene?”. “Tutto bene!”. Sorride e se ne va.

Il tramonto di luglio si presenta discreto fuori dalla finestra. Lo guardo. Sono certa di vedere una stella brillare. La immagino col naso appiccicato alla finestra. Sorridere della mia felicità. Della nostra felicità. Comprendere quel velo di malinconia che stria la pienezza della vita. Ma forse non sta spiando dalla finestra.

É dentro la stanza. C’è sempre stata. Nello spazio senza misura. Quello del cuore. Dell’amore.

“Hai cambiato faccia”, mi dice il giorno dopo Enza. La abbraccio. Ci credo, anche se non mi sono specchiata. Il 19 luglio. Il giorno in cui ho cambiato faccia. Il nostro 19 luglio. Il giorno in cui sono rimasta muta davanti al trionfo della vita.

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