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Era una bufala, ci sono cascata

Era una bufala, ci sono cascata

tazza computer

Qualche giorno fa alcune testate giornalistiche hanno pubblicato la notizia di una bambina di nove anni, data in sposa dai genitori, e violentata dal marito. La vicenda, rivelatasi poi sconosciuta alle forze dell’ordine, era ambientata a Padova e aveva come protagonisti degli immigrati musulmani. Era una bufala e io in qualche modo ci sono cascata, affrettandomi a commentarla sul post di un esponente politico che l’aveva rilanciata.

Come cronista, se in redazione mi fosse stato chiesto di lavorare su questa notizia, avrei avuto il dovere di verificarla, risalendo alla fonte, tramite la “famosa” telefonata ai carabinieri. Se la notizia avesse riguardato l’ambito locale in cui ho lavorato, probabilmente mi sarei insospettita del fatto che su un “fatto così grosso” non fosse stata indetta una conferenza stampa: anche quando la notizia viene anticipata da un solo organo di informazione, in casi come questi, le forze dell’ordine tendono, in molti casi, a usare questa formula. I precedenti, che purtroppo non mancano in tema di “matrimoni forzati e precoci”, avrebbero, inoltre, potuto far sorgere in me un dubbio: l’età della bambina in questione era notevolmente più bassa rispetto a quella delle adolescenti, protagoniste dei fatti di cronaca avvenuti in precedenza.

Da lettrice ho ritenuto che la verifica delle fonti fosse stata compiuta da chi ha scritto e rilanciato il pezzo. La fretta ha fatto il resto.

Il mio principale  errore è stato quello di commentare la notizia senza averla letta per intero. Si tratta di un errore grossolano ma non credo raro tra chi legge e commenta le notizie, specie se linkate dai propri contatti, sui social. Allibita dai commenti centrati sul disprezzo e la paura nei confronti della comunità di appartenenza dei genitori della bambina, mi sono affrettata a scrivere che il “fenomeno delle spose bambine andrebbe contrastato ovunque in quanto viola i diritti dell’infanzia”. Nel commentare frettolosamente la notizia ho usato un criterio simile a coloro che lo stavano facendo in chiave “anti-migranti”: l’indignazione.  Io ero indignata dai loro commenti, loro dal fatto che persone capaci di simili barbarie vengano accolte nel nostro paese e pretendano di “importare” i loro costumi.

Pur da posizioni molto diverse, abbiamo usato la notizia in base alle nostre visioni del mondo e alle “battaglie” che sentiamo di portare avanti. La loro diffidenza, se non aperta ostilità, nei confronti dei migranti e delle politiche attualmente messe in atto dal nostro paese, li ha portati a considerare la notizia credibile e usarla per sostenere la loro tesi. Io l’ho data per vera perché “sposo” la lotta al fenomeno delle spose bambine messa in campo dalle Nazioni Unite e da associazioni come Amnesty. Al di là dei  nostri punti di vista, diversissimi, entrambi abbiamo “ceduto” davanti ad un’informazione che, sin dai titoli, ha parlato alle nostre pance prima ancora che ai nostri cervelli.  In loro ha risvegliato sentimenti di paura nei confronti del multiculturalismo, in me il desiderio di non trascurare la violazione dei diritti delle bambine e far conoscere chi se ne occupa. Irritazione politica e “una buona causa” mi hanno spinta ad uscire dalla mia eco-chamber per addentrarmi in quella altrui che solitamente mi limito ad osservare.

La notizia e la sua smentita mi hanno portato ad altre due riflessioni, in cui mi è impossibile scindere la me lettrice dalla me giornalista e appassionata di comunicazione: quella sull’uso e quella sulla tematizzazione.

Bad news are good news, recita un motto contenuto in qualsiasi manuale di giornalismo.   Uno stupro ai danni di una bambina vittima di un matrimonio forzato e precoce, costituisce una notizia. In questo caso la notizia non solo era falsa ma è stata usata per alimentare paura e odio. Una notizia del genere se vera non poteva essere omessa. Una notizia del genere se vera poteva essere affiancata da un approfondimento sul fenomeno in Italia e nel mondo. Questo tipo di scelte dipende ovviamente dalla sensibilità dei singoli professionisti e dalla linea editoriale della testata.  La mia impressione di lettrice è stata quella di trovarmi davanti a notizie in cui il focus fosse l’appartenenza religiosa dei genitori.

La cronaca nera ha sempre interessato i politici. Mussolini l’aveva vietata perché avrebbe potuto veicolare un’immagine del paese diversa da quella che si sforzava di costruire. Oggi ( in realtà da tempo) alcune forze politiche ne fanno un uso uguale e contrario. Il fenomeno salta agli occhi ( ai miei almeno) quando c’è in ballo la questione immigrazione: i casi di nera ( che esistono) vengono usati per alimentare l’idea che “l’altro” costituisca un pericolo, contribuendo a costruire un immaginario collettivo in cui la realtà appare (perdonate la semplificazione) più brutta di quel che è.

Le notizie false, se non smascherate, innescano un corto circuito che rischia di ripercuotersi anche in ambito educativo. E qui entra in ballo la “me mamma”: la costruzione della realtà proposta dai media influisce su quella che noi adulti veicoliamo ai nostri figli e sugli atteggiamenti e i comportamenti che suggeriamo loro.  Personalmente credo che un’informazione fondata sulla verità sostanziale dei fatti oltre che deontologicamente corretta sia molto utile anche alla me mamma.

Sì, oggi vorrei essere in redazione.

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