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Dono

Dono

“Le grazie del Signore non sono finite”. Questa è l’unica frase che ricordo di aver sentito in chiesa durante la celebrazione con cui, otto anni fa, abbiamo salutato la piccola Lu. Un po’intontita dai farmaci e ancora incredula dell’epilogo della mia terza gravidanza, non so dire con certezza, se questo versetto delle lamentazioni, sia stato soltanto proclamato o anche ripetuto dal celebrante nella sua riflessione.

Ricordo però con assoluta lucidità il disagio provocato da quelle parole. Alle mie orecchie, quel giorno, sono risuonate come una beffa, un qualcosa di fuori luogo. Perchè parlare di “grazie” nel momento più buio?

Forse è proprio a causa di quello stridere che per molto tempo non ho più pensato a quelle parole, uniche superstiti, nella mia memoria, di una liturgia che, col senno di poi, avrei voluto contribuire a preparare.

C’è, invece, un’altra parola, che mi ha fatto compagnia in quelle interminabili prime settimane. Quattro lettere, preziose, quelle che compongono la parola “dono”.

É stata un dono” mi hanno detto, in due diversi giorni di quell’agosto in caduta libera, due amici sacerdoti. E quel suo essere stata dono, nella mia mente e nel mio cuore, giustificava la sofferenza di quei giorni, quella di una perdita, il lutto perinatale, che in tanti vorrebbero considerare un banale “incidente di percorso”, qualcosa da lasciarsi alle spalle in fretta e furia, come se le settimane di attesa, trenta più sei nel mio caso, si potessero cancellare col bianchetto.

Considerare la piccola Lu un dono, anche se mai stretto tra le braccia, è stato un balsamo che mi ha permesso di non sentirmi in colpa per la tristezza, per le lacrime, per lo sconforto. Il pensarla come dono mi ha concesso di concedermi il tempo di immaginarla, coltivarne il ricordo, celebrarne il passaggio, sentirne la mancanza.

Averla accolta come un dono, dava un senso a quel vuoto. Stavo male perché l’avevo amata, considerata preziosa. Questo Rendeva “ legittima” anche la disperazione. Anche se ancora non era nata, avevo perso una figlia. E non quella che “ sarebbe stata una figlia”.

Allo stesso tempo, però, il saperla un dono mi costringeva a ritornare a quella mattina, ai gesti mancati, alla paura di non averla accudita come una figlia attesa e amata. La paura terribile di non averla accolta durante la sua breve sosta silente su questa terra mi ha accompagnato per anni; un tormento che solo il PerDono ha saputo lenire.

“Le grazie del Signore non sono finite, non sono esaurite le sue misericordie. Si rinnovano ogni mattina, grande è la sua fedeltà.” Così, ho scoperto di recente, prosegue Geremia nel testo biblico , dopo aver elencato, non senza sconforto e paura , una lunga sfilza di pene patite dal suo popolo.

E così, a distanza di anni, sono andata alla ricerca dei doni che mi sono piovuti intorno in quei giorni in cui credevo di affogare. Il maritozzo sempre presente. Gli amici e le amiche vicini ma non invadenti, disposti ad ascoltare, consolare, portare le bambine a fare un giro, accompagnarmi in una passeggiata. Persone che hanno saputo asciugare le lacrime con un abbraccio, concreto o spedito al telefono. Presenze pazienti che hanno decifrato le mie parole tra i singhiozzi, senza risposte facili o banali.

Quelle stesse persone, insieme ad altre incontrate più tardi, ancora oggi accolgono i miei ricordi e le mie nostalgie per ciò che non è stato. Rispondono con un sorriso degli occhi quando mi sentono pronunciare il suo nome.

Ma questo pensare a quanto ricevuto in quei giorni è venuto dopo. Lì per lì ero semplicemente furente. Quel briciolo di fede che pensavo di aver ricevuto rischiava di soffocare tra le mie rivendicazioni. “La gente non fa più figli, io (perchè non noi, poi?) faccio il terzo e tu che fai? Me lo strappi a a un passo dalla nascita?” ripetevo a Dio con rabbia e il timore di quella stessa rabbia. Intanto tra gli amici e le amiche c’era anche chi pregava per me (per noi) e mi scaldava il cuore sentirmelo dire.

C’era qualcosa di dolce nel sapere che qualcuno ci ricordava nelle sue preghiere quando io, confusa più che mai, piangevo ad ogni “sia fatta la tua volontà”. E in chiesa entravo quasi solamente per lasciar scorrere le lacrime indisturbata. Ciò che avevo appena vissuto era incomprensibile, privo di qualsiasi logica. Quasi crudele.

Non volevo sentir parlare di angeli e bambini in braccio a Maria, ma cercavo il silenzio e in quel silenzio confidavo al Crocifisso Risorto paure e timide speranze. Non so dire se ci fosse fede in quelle parole sussurrate o solo pensate, so solo che mi sentivo al sicuro. Accolta.

Questi ricordi, insieme a quel “le grazie del Signore non sono finite” , sono riemersi, non chiamati, in una calda mattina di febbraio, mentre da un ponte sul Gave, osservavo le persone nella grotta di Lourdes. Ci sono luoghi e tempi in cui è più facile, complice una massiccia dose di perdono e pace, mettere insieme i pezzi della propria storia e scovare la tenerezza dove in passato sembrava esserci solo un’assenza o una distrazione.

Ho sentito risuonare forte ogni gesto, ogni parola, ogni preghiera. E ne ho assaporato, a distanza di anni, la dolcezza, la delicatezza.

E dunque si, ho dovuto ammettere che davvero le grazie si erano rinnovate ogni mattina. E così ho ringraziato. Ho ringraziato per le persone che ho e ho avuto accanto. Per le ragazze. Per il maritozzo. Per l’allegro trambusto portato dal selvaggio fin dal suo arrivo.

Tra quei grazie, maldestro tentativo di preghiera, è apparso un pensiero inaspettato. Un pensiero colmo di tenerezza per Lu, Lucrezia che è stata vita. È stata e resta figlia. E, nonostante tutto, ha portato dei doni nelle nostre vite. È stata, in qualche modo, difficile da spiegare, un dono.

Lucrezia che vive nella Vita. Lucrezia che vive nell’Amore. Nel mio. Nel nostro. E in quello perfetto, con la A maiuscola. Nonostante non abbia mai capito il perché (che non è il motivo) di quel che è successo.

Post Scriptum

Nel rileggere, credo di dover aggiungere qualcosa intorno alla parola “ dono”. Il dolore, la tristezza, il baratro sono tutte cose di cui avrei fatto volentieri a meno.

Avrei voluto che le cose andassero diversamente. Avrei preferito un’altra figlia viva. Eppure quel passaggio, oggi, appare prezioso per quanto indecifrabile. Quasi mi avesse insegnato un’altra dimensione dell’amore.

Sicuramente come ogni figlio, Lu ha portato e lasciato qualcosa. Non è passata per caso nelle nostre vite.

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